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INCONTRO DI FINE ESTATE

Pubblicato da: Categoria: IL RACCONTO

6
SET
2018

In città, d’estate si boccheggia e a volte diventa difficile persino respirare. Il sole inesorabile continua a bruciare, ma è dal basso che arriva il fastidio maggiore: l’asfalto sembra sciogliersi sotto i piedi ed è una fornace che rimanda in alto il calore, moltiplicandolo a dismisura.
Durante la pausa pranzo non esco, me ne resto chiusa nell’ufficio semideserto ma dotato di enormi condizionatori che continuano ad andare a palla e mangio ciò che mi sono portata da casa.
Sono stanca, ho la testa vuota, il cervello senza idee e non riesco a concentrarmi. La metà delle scrivanie sono vuote, molti dei colleghi sono ancora in ferie. Le mie amiche sono tutte via, il mio ex è in Sardegna con Serena, una tipa dagli occhi da cerbiatta ma con il cuore da strega: seno prosperoso e sedere a mandolino, che gli ha fatto perdere la testa non più di tre mesi fa. Mentre io, non sapendo dove andare e con chi andare, sono rimasta qui in città a lavorare, sperando almeno che i miei capi lo apprezzino e così acquisire un po’ di credito dalla società, visto che il mio contratto scade a dicembre e non so ancora se mi verrà rinnovato.
Forse tra un po’ non avrò più nemmeno un lavoro, mentre la mia storia con Osvaldo è finita tre mesi fa per colpa di quella tipa. Provo un senso di smarrimento, sono sola e non ho più punti di riferimento.
Tra pensieri vaghi e inconcludenti programmi, finalmente è arrivata l’ora d’uscire. Spengo il computer, saluto i pochi colleghi rimasti e vado via. Per strada cammino tra saracinesche abbassate e marciapiedi quasi del tutto deserti, e torno a sentirmi più sola che mai. Non mi va di tornare a casa, nel mio monolocale all’ultimo piano. Ho voglia di camminare e allora mi allungo fino in centro ed entro anche in una chiesa, e forse proprio perché non c’è nessuno, né un prete, né odore d’incenso, confessori o ceri accesi, mi sento più vicino al Signore. Poi, quando mi è venuta un po’ di fame, prima di rincasare e anche se non ho ancora percepito lo stipendio, mi fermo da Enzo. Una trattoria larga due tavoli e lunga tre luci al neon, dove vado quando ho soldi, quando so che non troverò niente nel frigorifero, o non mi va di cucinare nemmeno due uova al tegamino.
Questa trattoria è l’unica oasi di fresco che conosca e il proprietario l’unico amico che mi è rimasto.
Il locale a quest’ora è ancora deserto, ma quando mi vede entrare Enzo mi accoglie con il suo solito sorriso e dice: Buona sera signorina Giuliana, e io accolgo il suo saluto come una ventata di freschezza nella mia vuota e noiosa giornata.
«Signorina, visto che è ancora prestino e il forno non ancora alla temperatura giusta per cuocere le pizze, mentre aspetta posso offrirle un aperitivo?» Mi chiede.
«Va bene». Rispondo, e lui mi porge una coppa con dentro un liquido rosso, ma così alcolico e ghiacciato che mi fa l’effetto di un pugno nello stomaco.
Nel locale siamo solo in due, io e un signore anziano seduto un po’in disparte che sta bevendo la sua birra e mangiando olive nere. Forse aspetta anche lui che il forno vada in temperatura per poi ordinare la pizza. Una cameriera esce dal retro allacciandosi il grembiule e inizia a sistemare i tavoli, mentre il silenzio è rotto solo dal monotono ronzio di un televisore appeso alla parete.
Non ho voglia di tornare a casa. Me la prendo comoda, e mentre sto sorseggiando il mio aperitivo e mangiucchiando noccioline, vedo entrare un altro cliente. È un uomo che conosco di vista, uno dei tanti professionisti che abitano nei paraggi e che anche d’estate e con questo caldo africano si ostinano ad andare in giro in giacca e cravatta. È un bell’uomo, con un sorriso accattivante e lo sguardo penetrante. Sembra un tipo molto sicuro di se e, avvicinatosi al bancone, chiede anche lui un aperitivo.
«Che ci fa ancora qui in città architetto?» Gli domanda Enzo.
«Che ci posso fare? Moglie e figli sono al mare e io, come vedi, sono bloccato qui a lavorare». Risponde.
Per un attimo ho l’assurda impressione che quelle informazioni così dettagliate non siano rivolte al trattore ma dirette a me. Sarà l’effetto del caldo o dell’alcool contenuto nel mio aperitivo ma inizio a fare strani pensieri. Mi soffermo a guardarlo e mi accorgo che ha le labbra sottili, il naso pronunciato e le mani lunghe e affusolate. Enzo lo ha chiamato architetto, infatti ha proprio l’aria rispettabile di un professionista in carriera e il suo modo di fare mi attrae.
Immagino la sua casa, grande e piena di luce. Perfetta, con i pavimenti di marmo pregiato e lucidissimo. Mobili lussuosi e vetrate luminose. Foto dei figli e della moglie sparse per le stanze e anche nel suo studio. E cerco di pensare a come potrebbe essere sua moglie, magari una quarantenne bella e sempre in ordine che indossa solo abiti firmati.
Il mio bicchiere è ormai vuoto, mi gira un po’ la testa e allora penso che sia giunto il momento di mettere qualcosa nello stomaco per cercare di contrastare l’alcool che mi fa pensare a certe cose. La ragazza mi porta qualche stuzzichino, una birra e poi anche la pizza Margherita.
Mangio, e intanto continuo a buttare l’occhio verso quell’uomo che si è seduto proprio di fronte al mio tavolo e tra un boccone e l’altro, continuando a controllare il suo cellulare, mi butta certe occhiate...
Finito di cenare chiedo di pagare ma Enzo, indicandomi l’architetto, mi dice che ha già provveduto lui al mio conto. Io mi giro e senza tanti fronzoli lo ringrazio. Lui mi risponde che è stato un piacere, e prosegue:
«Siamo solo due anime perse in questa città abbandonata, e mi ha fatto veramente piacere averla incontrata e averle potuto offrire la pizza».
Torno a ringraziarlo, questa volta mettendoci un po’ più d’impegno. Salutiamo Enzo e usciamo insieme. L’ondata di calore esterno ci investe e ci rimbalza addosso con violenza. Lui si ferma, riprende in mano il suo cellulare, digita qualcosa ed io mi fermo ad aspettare. Mi sento strana, quasi euforica, e quando mi chiede se mi va di fare due passi a piedi, inspiegabilmente e senza imbarazzo gli rispondo subito di sì. Penso che in fondo non ci sia niente di male, in città siamo rimasti in pochi e allora perché non alleviare la solitudine facendo quattro passi con un architetto che mi è stato presentato da Enzo?
Poco dopo siamo seduti all’esterno di un piccolo bar e stiamo gustando un gelato. L’aria inizia a rinfrescare, ma i miei pensieri diventano bollenti e continuano a spingersi in avanti. Penso alla sua bocca quando mi bacerà, alle sue mani quando mi accarezzeranno, perché ne sono certa: succederà.
Lui si toglie la giacca e si allenta il nodo della cravatta e quando il cameriere ci passa accanto, ordina del vino rosso. La conversazione è piacevole, anche se lui continua a comportarsi con distaccata signorilità. Mi guarda e sorride, ho la sensazione che lo voglia anche lui, ma intanto non si lascia ancora andare. Tuttavia, di tanto in tanto intuisco che sta pensando a quello che penso io, e questo gioco di sguardi mi piace e mi accende di desiderio.
Paga, quindi ci alziamo e gli indico la direzione verso cui devo andare per tornare a casa. Lui mi prende sotto braccio, mi dice che non ha nessuna fretta di tornare a casa, che ha voglia di fare ancora due passi e mi chiede se può accompagnarmi.
Sono inebriata, eccitata, ma anche un po’ spaventata dalla stranezza di questo incontro fuori programma e anche dalla situazione, ma ho una tremenda voglia di andare avanti, di lasciare che le cose accadano da sole. E abbattano completamente quello che resta delle formalità che ancora ci dividono.
Arrivati davanti al mio portone, gli dico che se vuole, per ricambiare la cena e il gelato, posso offrirgli un tè ghiacciato e una fetta di torta. Lui risponde che il tè lo accetta volentieri, che la torta non la vuole ma che gli farebbe piacere fermarsi e farmi compagnia mentre la mangio io.
In pochi istanti siamo in casa e per un attimo ho ancora un barlume di lucidità e mi chiedo cosa ci faccia quest’uomo quasi cinquantenne, sposato, che indossa un raffinato abito di sartoria, nel monolocale disordinato e sottosopra di una trentenne precaria e dalla vita incasinata come la mia.
Però lui non sembra porsi tante domande, fissa i suoi occhi nei miei e dopo pochi secondi mi abbraccia. Stringe tra le mani la mia testa e subito mi bacia. È un bacio improvviso, inaspettato. È un bacio caldo che mi entra in gola con dolcezza. Poi si allontana, si toglie la giacca e si strappa via la cravatta. Ora sono spaventata, cosa sto facendo? Prendo fiato e con tutta la forza che ho lo spingo lontano da me. Vorrei gridare ma lui continua a baciarmi e non riesco.
Cerco di resistergli. Mi irrigidisco e per un attimo ancora mi oppongo, ma poi mi sciolgo e mi lascio andare. Gli sbottono la camicia e lui mi sfila la maglietta. Sentire la sua pelle contro i miei seni mi provoca un’emozione fortissima, le gambe quasi non mi reggono, sono impietrita e mi aggrappo a lui mentre mi stringe, mi solleva e mi adagia sul letto.
«Ti prego, no. Sei sposato». Insisto.
«E credi che sia una buona ragione per fermarmi?» Mi chiede, e intanto è già su di me e sento le sue mani che corrono per tutto il mio corpo. Intorno a me tutto comincia a girare vertiginosamente, come se fossi su una trottola impazzita. Mi lascio andare completamente e sono nelle sue mani.
Intorno a me di colpo tutto svanisce, solo la luce che filtra dalla finestra illumina la stanza. Le sue mani sono su di me. Mi bacia sulla bocca, le sue labbra mi sfiorano il collo e i seni. Sono stordita dal suo odore, mi gira la testa, ma continuo a rimanere con gli occhi chiusi, forse per vergogna, forse per paura o forse per assaporare meglio questi momenti meravigliosi.
Non avevo mai fatto l’amore con uno sconosciuto ed è come se ora lui sconosciuto non lo fosse mai stato. Tra noi è scoppiata un’intesa improvvisa ma straordinaria: l’odore della sua pelle, il suo corpo nudo su di me abbatte ogni inibizione e mi lascio andare completamente. Sono nelle sue mani. È speciale, ci sa fare e io ho voglia di urlare, di farmi fare qualsiasi cosa lui voglia. Mi sento come se non avessi più forze. Non penso, non penso più a niente e per più di un’ora non esiste che lui, e ciò che provo e sento io.
È notte. Dalla finestra aperta giungono i rumori di qualche raro veicolo di passaggio e di un televisore ancora acceso nella casa di fronte. Lui si è addormentato accanto a me ma lo lascio stare, questa notte non conta più chi siamo noi o cosa voglio io. Non conta quale sarà il mio futuro e non m’importa nemmeno chi sia lui o se qualcuno lo stia aspettando a casa, o quanto lontane e discordanti siano le nostre vite.
Ha dormito qui, è stato del tutto naturale dopo una certa ora addormentarci abbracciati.
L’indomani mattina facciamo colazione insieme, poi si riveste e mi saluta con un bacio.
«Buon Giorno Giuliana. È stato bellissimo e tu meravigliosa».
Non gli rispondo, accenno un sorriso, chino la testa e richiudo la porta alle sue spalle. E ho la netta sensazione che non lo rivedrò mai più.
Vado al lavoro ancora stordita e per tutto il giorno non ci sto con la testa. Cerco di ricordare gli odori, i sapori, i brividi, ma è un gioco penoso e ciò che resta è solo il ricordo.
Verso le otto di sera esco dalla doccia in accappatoio e vado a sedermi sul divano e con il telecomando in mano aspetto che passi quest’ora infernale, fatta di telegiornali e pubblicità, quando sento il campanello suonare. Vado ad aprire ed è lui.
Non ci diciamo nulla, ci guardiamo e improvvisamente i nostri occhi s’illuminano di desiderio. Un senso di resa e complicità m’invade e come la sera precedente mi lascio andare. Come se quest’incontro e questa passione assurda e sbagliata che è nata tra noi sia ormai inevitabile.
Cinque secondi dopo il mio accappatoio è un mucchietto di spugna umida che giace sul pavimento. Lui comincia a baciarmi, abbassa gli occhi su di me e un brivido avvolge tutto il mio corpo esposto al suo sguardo. Mi accarezza e mi stringe a se. La sua mano trema mentre mi accarezza i seni, poi mi rovescia sul letto. Facciamo l’amore come la sera prima ma questa volta la dolcezza ha il sopravvento sulla foga e tutto diventa più struggente. E anche la passione è più consapevole e delicata.
Per cinque notti i nostri amplessi si ripetono, ma il sabato mattina, rivestendosi e finendo di sistemarsi il nodo alla cravatta, mi comunica che ha dei lavori urgenti da sbrigare e che poi, nel pomeriggio, raggiungerà la famiglia al mare e ci resterà sino alla fine delle vacanze.
«Capisco». Rispondo tranquilla, tanto per chiarire che non mi ero fatta illusioni.
Lui sorride, si dimostra dispiaciuto, mi bacia come ha fatto le altre mattine prima di uscire, ma questa volta si sofferma di più, mi stringe a se più forte e continua a baciarmi, poi se ne va senza dire più una parola.
Rimasta sola mi guardo intorno e sento ancora l’eco dei suoi passi, della sua voce e sto per cedere alla malinconia.
Alla fine decido di vestirmi e uscire. Vago senza una meta precisa. Mi aggiro tra strade ancora deserte e negozi appena aperti, mentre il sole mi arroventa i pensieri e non riesco nemmeno a decifrare bene come mi senta e cosa stia provando in questo momento. Ogni immagine mi risulta confusa e solo i ricordi delle notti appena trascorse continuano a martellarmi in testa.
È finito agosto ed è iniziato anche settembre, ma dell’architetto Pietro Bardelli non ho più notizie, non ne è ho saputo più niente.
 



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