“L’importanza di chiamarsi Ernesto” è una commedia teatrale di Oscar Wilde che, anche in virtù dell’assonanza fra il nome proprio Ernest e l’aggettivo earnest (serio, onesto), mostra come l’apparenza e la forma, spesso non corrispondano al contenuto ma siano utili e funzionali al raggiungimento degli scopi individuali.
Abbiamo parafrasato il titolo dell’opera adeguandolo a Matteo, nome dell’apostolo, di origine ebraica e che significa dono di Dio. Lo abbiamo fatto riferendoci a due personaggi politici italiani che, nel bene o nel male, hanno sconvolto la vita del Paese. Matteo Renzi e Matteo Salvini.
Il primo è nato a Firenze nel 1975 da una famiglia d’imprenditori e, dalla sua giovane esperienza scout, trae le indicazioni che lo indirizzeranno verso la sua carriera politica nell’area di Centro. La sua scelta gli permetterà di diventare sindaco di Firenze, Segretario del Partito Democratico e Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana dal febbraio 2014 al dicembre 2016.
L’altro, Matteo Salvini, è nato a Milano nel 1973 da un dirigente d’azienda e una casalinga. Dopo gli studi classici ha frequentato la facoltà di Scienze Politiche prima e Storia dopo senza completare gli studi. Ha iniziato la sua attività politica con i Comunisti Padani e frequentando il centro sociale Leoncavallo, per poi confluire nella Lega Nord che gli ha permesso di divenire deputato del Parlamento Europeo, Segretario della Lega Nord e, in questo momento, vicepresidente del Consiglio e Ministro dell’Interno.
I due Matteo sono, politicamente, in netta contrapposizione e non si privano di esternarla con accese schermaglie, specie mediatiche. Eppure, analizzando il loro vissuto e le loro personalità, s’individuano un incredibile numero di caratteristiche che li accomunano. Entrambi non hanno mai realmente lavorato mentre costruivano la loro carriera sulle parole che, con indiscutibili capacità dialettiche, hanno sempre dispensato pubblicamente, con qualsiasi canale scibile. Adottano da decenni uno spiccato stile teatrale che sortisce un grande ascendente sui loro sostenitori. Sia l’uno sia l’altro sono egocentrici, totalmente privi di modestia, mentono sapendo di farlo, sono incredibilmente ambiziosi e non disdegnano l’utilizzo di qualsiasi privilegio. Ciò che per loro conta sono i numeri che manipolano spregiudicatamente senza preoccuparsi dei risultati che si basano su tentativi e ipotesi. Non accettano osservazioni e piuttosto che riconoscere i propri errori e dimostrare le loro ragioni, anche se infondate, sono capaci di stravolgere qualsiasi logica o legge fisica.
Al contrario di quanto affermano, il loro scopo è, rispettivamente, la “renzizzazione” e la “salvinizzazione” dell’Italia e, perfino, dell’Europa e, per raggiungerlo, non mostrano nessuno scrupolo per le reali necessità della popolazione. Il fine ultimo di entrambi è il proselitismo ma senza una precisa finalità, tant’è sono capaci di affermare qualcosa e contraddirla in lassi temporali brevissimi. Questo modo di proporsi, di fatto, genera stravolgimenti sociali ed economici a costo molto elevato eppure, sia Renzi sia Salvini sono o sono stati alla guida del Paese che, di fatto, continuano a contendersi. Gli elettori, come se appartenessero a una realtà premedievale, sono trasportati fuori dalla loro stessa identità, all’interno di una condizione virtuale, dove i due registi si avvalgono di spettri del passato pro e contro la causa.
In concreto, per loro l’elettorato non esiste e riescono a condizionarlo attraverso la diffusione di piccoli baroni ai quali hanno regalato qualche ruolo istituzionale e l’illusione di contare. In tutto questo sconfortante scenario, appaiono piccole fiammelle di realtà accese dalle voci di chi conserva etica e ragione ma così flebili da non emergere. Fra i due, compare lui, l’immortale Cavaliere che, fra una comparsata neoclassica e un ravvedimento umano, vero o falso, cerca uno spazio nella speranza di recuperare gli antichi fasti. Per quanto inadeguato però, persegue gli scopi della sua categoria sociale ma, proprio per questo è anacronistico e avulso da quella classe politica che non ha la minima idea di cosa fare e come farlo. La triste realtà è che di Matteo o, meglio di Ernesto, e con essi la totale mancanza di prese d’atto, saremo condannati a lungo. Se l’Alighieri fosse stato un nostro contemporaneo, avrebbe scritto di quanto accade oggi con una tale foga che gli eventi delle Famiglie due-trecentesche, al confronto, sarebbero stati nulla.